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A che ora è la fine dell’Arsenal? Se tocca rimpiangere l’ultimo Wenger

4 ' di lettura“A che ora è la fine del mondo?”. Se lo chiedeva Lucianone da Correggio, qualche manciata di anni fa. Certo, non è la stessa cosa, ma per chi stringe intorno al collo la sciarpa biancorossa dell’Arsenal questa stagione in Premier League sta assumendo i contorni dell’Armageddon.

Quattro sconfitte negli ultimi cinque turni. Quindicesima piazza. A cinque incollature dal Fulham, terzultimo. D’accordo, in Europa League la squadra ha letteralmente fagocitato il girone, ma gli avversari erano per lo più morbidi, arrendevoli, scarsi. Il Benfica, che attende i Gunners al prossimo turno, sarà tutta un’altra storia.

Le vere sirene d’allarme sono scattate da un pezzo in campionato. Al netto del fatto che Kroenke resta uno dei presidenti più odiati dai fan, tolta la circostanza che in pochi credono nell’operato di Edu, la rosa costruita quest’anno non collima affatto – per qualità e ambizioni – con il posto occupato in classifica.

“Le ragioni? Non ci sono ragioni”, diceva Mark Renton in Trainspotting. Qui, invece, tocca afferrarle e spappolarle sul tavolo. Partiamo da Mikel Arteta. Un tecnico prodigio o un confusionario manager che prova affannosamente a scimmiottare il gran maestro Pep  adottando tonnellate di scelte controcorrente, solo per il gusto di apparire un genio alternativo? Il giudizio resta sospeso. La F.A. Cup sollevata qualche mese fa potrebbe essere una levata d’ingegno o una siderale botta di culo, a questo punto. Da inizio stagione ha proposto cinque moduli diversi. Ha cambiato collocazione ai giocatori, frullandoli per il campo come pezzi impazziti di una scacchiera scheggiata. Ha incassato 7 sconfitte e 15 gol e ne ha fatti soltanto 10. Pare quasi che – a volte – la sua autostima lo porti a eccedere oltre il bordo dell’umilità che dovrebbe connaturarsi a chi, come lui, deve ancora dimostare tutto nel ruolo di manager.

Un’altra questione sanguinosa è la debolezza societaria. La vicenda Ozil assume ormai contorni grotteschi. Il fantasista più pagato nella storia dell’Arsenal non vede il campo nemmeno per sbaglio e la società non è stata in grado di piazzarlo da nessuna parte. Come ci si può aspettare che il gruppo sia solido se la fondamenta vacillano, sfoggiando scarsa autorevolezza? E vogliamo parlare della vicenda mascotte? No, almeno questo evitiamocelo.

Tornando al campo, le lacune di alcuni giocatori sono evidenti, ma non tali da giustificare questa distanza siderale dalle prime quattro. Certo, se uno come Thierry Henry dice “spengo la tv, non posso vedere Xhaka capitano della mia squadra”, ci sarebbe da riflettere. Era stato sempre Titì, in passato, a dire che i biancorossi del nord di Londra non avrebbero potuto vincere nulla con Olivier Giroud là davanti. Messaggio ricevuto: dentro Aubameyang e Lacazette. La questione è che il primo si è incredibilmente inceppato e, dopo caterve di reti, pare non riuscire a segnare nemmeno con le mani. Laca, invece, sembra vittima delle contraddizioni di Arteta: ti faccio capire che sei una riserva, ma all’occorrenza ti rispolvero sempre chiedendoti di salvare la nave che affonda.

L’arrivo di Thomas Partey all’ultimo giorno di mercato fa intuire molto rispetto alla mancanza di programmazione del club. In generale, comunque, la squadra sarebbe munita delle risorse necessarie per provare a contendersi addirittura l’ingresso in Champions, come ai bei tempi. Ricordate quando con Arsene Wenger quella musichetta gloriosa sembrava quasi un diritto acquisito? Beh, addio. Chi abbaiava “Wenger out”, armato di tutte le ragioni del mondo – del manager alsaziano, alla fine, non ne potevano più – ora si trova quasi costretto a rimpiangere quell’ultimo periodo. Mourinho ebbe a definirlo “uno specialista in fallimenti”, esagerando, come al solito. Ma anche togliendo di mezzo il periodo aureo del francese e dell’Arsenal, l’ultima scia di Wenger sembra comunque preferibile ai mezzi disastri di Unai Emery ed alle singolari pensate di Mikel.

La squadra, si diceva. Leno ha dimostrato di essere un portiere di livello. Il problema è che, là dietro, nemmeno l’arrivo di Gabriel (mentre Saliba continua a rimanere congelato) sembra aver risolto gli atavici difetti di una squadra geneticamente votata all’attacco, ma con difensori scarsi. David Luiz, diciamolo una volta per tutte, non è un centrale puro. Tierney, a sinistra, ha la spinta del sangue scozzese che lo arde dentro ed una buona qualità. Bellerin, se non perde la concentrazione, sarebbe titolare pressoché ovunque. L’attacco è di buon livello: Auba vive un periodo di appannamento, ma tutti sanno che si tratta di un bomber di caratura mondiale. Lacazette, a cose normali, è un cecchino e sa aiutare la squadra. Saka resta una delle migliori giovani rivelazioni di quest’anno, mentre Pepe continua ad fluttuare a corrente alternata, non giustificando il maxi esborso economico. Martinelli, se tornerà quello che conosciamo dopo lo l’infortunio, può fare la differenza. Willian, invece, viaggia a fari spenti.

Il vero problema? Il centrocampo. Mandato via troppo in fretta Guendouzi, lì in mezzo si balla. Xhaka – lo ha dimostrato anche ieri – è tutto fuorché un leader. Ceballos predica nel deserto e, comunque, non è un fuoriclasse. Willock ancora deve farsi ed El Neny – uno che sarebbe riserva pressoché in ogni top club – diventa quasi il migliore della combriccola.

Il mercato di riparazione è dietro l’angolo, ma l’impressione è che – stante il fatto che Arteta potrebbe davvero avere le stimmate del predestinato – potrebbe esserci bisogno di un cambio alla guida tecnica, oltre che di un po’ più di sostanza e qualità sulla linea mediana.

I tempi di Titì, Pires, Ljungberg e Bergkamp sono lontani anni luce, è vero: ma questo Arsenal è troppo brutto per essere vero.

 

 

 

 

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Paolo Lazzari
Paolo Lazzari
Giornalista

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