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sabato 27 Luglio 2024
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Thierry Henry, l’oro di Londra

La storia del giovane francese che dal sobborghi di Parigi incantò il mondo intero.

10 ' di letturaNel calcio, come nella vita, ci sono storie così belle, così perfette, che il solo tentativo di raccontarle costituisce un’impresa, un’assunzione di responsabilità. Ogni parola scritta ha il peso di un macigno, ogni frase raccolta rischia di profanare un qualcosa di intoccabile, che la realtà e il tempo hanno reso fenomenale.

La storia di oggi ha inizio il 17 Agosto 1977 a Les Ulis, uno dei sobborghi più degradati della Parigi di quel tempo. Alcune esistenze sembrano nascere senza futuro, in contesti miseri, ma riescono a sovvertire i pronostici della vita grazie a un dono, in grado di trasformare un triste racconto in una favola.
Questa è la storia di Thierry Henry, un giovane bambino della “Paris povre” divenuto Re di Francia e Inghilterra, che con il suo destro ha incantato il mondo intero e riso in faccia alla povertà.

L’infanzia nella banlieue è difficile. Per il piccolo Titì l’unico spazio per sognare si apre calciando un pallone. Nonostante le difficoltà economiche il padre riesce a risparmiare un piccolo gruzzoletto per acquistargli un paio di scarpini da calcio; il giovane francese inizia a muovere i primi passi da calciatore proprio dal suo quartiere. Henry ha appena compiuto sette anni quando Claude Chezelle gli apre le porte delle giovanili del Les Ulis, club in cui milita sino al 1989, prima di trasferirsi al Us Palaiseau e dopo neanche 6 mesi nelle fila del Viry-Chatillon, club dell’omonima cittadina.
Thierry è un ragazzino dalle qualità sorprendenti; si fa notare per le sue capacità tecniche fuori dal comune, oltre che per uno spiccato senso del gol.
Corre il 1990 quando seduto sugli spalti a guardare la partita del Viry-Chatillon non c’è un paesano qualunque, ma Arnold Catalano, osservatore appositamente inviato dal Monaco per visionare Henry all’opera sul campo. Titì non ne sa nulla, gioca la partita come se niente fosse… Il risultato? Finisce 6 a 0 per il Viry-Chatillon, tutte e sei le volte a timbrare il cartellino è Thierry Henry.
Catalano capisce immediatamente di essere di fronte a un predestinato, da assicurarsi ad ogni costo, senza perdite di tempo. Henry diventa un nuovo giocatore delle giovanili del Monaco, senza dover neppure passare dal consueto provino preliminare, un talento del genere non ne ha evidentemente bisogno.

Passare dai campi di periferia allo sfarzoso centro sportivo del Principato di Monaco è un vero e proprio salto quantico per Titì, appena adolescente.
Talvolta anche la fortuna gioca un ruolo importante nelle sorti di ciascuno, per Henry ha un nome e cognome: Arsene Wenger. Il tecnico francese, alla guida del settore giovanile monegasco, gli cambierà la carriera: da subito vede in lui la stoffa del campione ed inizia un sofisticato lavoro tecnico-tattico per attribuirgli una collocazione in campo, per affinare e mettere a frutto le doti che madre natura ha attribuito al giovane francese. Henry cresce e diventa giocatore sotto la supervisione del suo mentore, che con un’opera certosina sgrezza un talento purissimo, come il lavoro di uno scultore che ricava l’opera già insita dentro il marmo.
Nel 1994 Wenger viene scelto come tecnico della prima squadra. L’allenatore francese ritiene pronto Titì per fare il salto nel calcio che conta, tra i professionisti: è giunto il momento di vedere i frutti del lavoro protratto per tutto il settore giovanile.

 

Il suo mentore calcistico gli disegna inizialmente una posizione diversa da quella di punta centrale, che lo renderà un totem calcistico. Titì debutta da ala sinistra, presidiando la zona laterale del campo, nella quale può dar sfoggio di tutte le abilità tecniche nell’uno contro uno, saltando l’avversario in modo secco e in velocità, con un’imprevedibilità e variabilità nelle giocate a dir poco esaltante. E’ un esperimento tattico che si rivelerà fondamentale per la carriera da prima punta di Henry, che aggiungerà al suo repertorio da goleador la capacità di decentrarsi sulla fascia sinistra, puntare l’uomo conducendo la palla indifferentemente d’interno o d’esterno destro ed insaccandola alle spalle del portiere con il piattone da una zona del campo impensabile; una giocata contro la fisica, per la quale ancora oggi viene ricordato.
La prima stagione in maglia biancorossa si chiude con 18 presenze e 3 reti.
A fine stagione qualcosa ronza nella testa di Wenger. Il tecnico è convinto che debba essere aggiunto un ulteriore tassello per rendere Henry un calciatore completo, in grado di esprimere tutto il suo potenziale, ed ecco la meravigliosa idea che trasforma Wenger da maestro di calcio in visionario: inizia a pensarlo nel ruolo di centravanti puro.
In maglia monegasca Henry vincerà il suo primo trofeo: la Ligue 1 ’96-’97. In campo c’è gente del calibro di Barthez, Petit, l’esperto Sonny Anderson, oltre a un giovane Trezeguet che con Henry forma in avanti un binomio verde di tutto rispetto: una generazione di pianticelle destinate a fiorire nell’Europa delle grandi e a portare la Francia sul tetto del mondo nel 1998. Titì segnerà 9 reti in 36 presenze, essendo un vero e proprio trascinatore della squadra, seppur ancora nel ruolo di ala, iniziando la sua trasformazione in centravanti.
Arriviamo al 1998, il primo dei molti anni di record: Henry trascina il Monaco in semifinale di Champions e si consacra capocannoniere del torneo con la bellezza di 7 reti, nessun francese aveva fatto meglio prima.

La grande stagione disputata gli vale la chiamata nell’eroica “spedizione” transalpina ai mondiali di Francia ’98. La nazionale guidata da Jacquet si presenta con una delle migliori rose, che dà una straordinaria dimostrazione di forza lungo l’arco del torneo, coronato schiantando per 3-0 il temibile Brasile di Ronaldo, Rivaldo e Bebeto. Henry, seppur non titolare, riesce a ritagliarsi il suo spazio, segnando anche una doppietta contro l’Arabia Saudita nella fase a gironi. A 21 anni Titì detiene già un campionato e una coppa del mondo, un palmares di tutto rispetto, considerata l’età.

Le prestazioni offerte in campo internazionale gli valgono l’attenzione di grandi club. La Juventus, complice il grave infortunio di Alessandro del Piero, lo acquista nel Gennaio del ’99 per 75 milioni di franchi francesi, circa 11 milioni di euro, una cifra faraonica per le quotazioni del tempo.
A Torino qualcosa si inceppa: la stagione bianconera non è delle più felici, tra difficoltà ambientali e una collocazione tecnica ad oggi ancora inspiegabile, Henry non riesce a confermare quanto di buono fatto vedere nel Principato. A sedere sulla panchina della Juventus è Carlo Ancelotti, non certo l’ultimo degli arrivati, a dimostrazione del fatto che il calcio è uno sport meraviglioso perché non c’è nulla di già scritto, di comprovato, perché anche i migliori sbagliano. Il tecnico vede Henry come esterno di centrocampo, lo relega in una posizione non sua con compiti anche di copertura a tutta fascia, sacrificando così il talento del francese che colleziona appena 3 reti in 16, guadagnandosi l’appellativo di “bidone”.
Nel frattempo, il vento Oltremanica è cambiato. A Londra arriva il primo francese amato dagli inglesi, quello stesso Arsene Wenger che ha cresciuto Henry da bambino e lo ha reso uomo, in campo e fuori. Mentre Henry annaspa tra le difficoltà e le incomprensioni a Torino, Wenger, alla prima stagione con i Gunners, vince inaspettatamente il double, Premier League- FA Cup.
A fine stagione la cessione di Anelka, attaccante protagonista nella cavalcata vittoriosa del team londinese, suscita polemiche e clamore tra i supporters: i Gunners sono alla ricerca disperata di un bomber. Ed ecco che arriva il lampo di genio di Wenger, che non ha mai dimenticato il giovane fenomeno (tale lo riteneva) allenato a Monaco. Il padre chiama, il figlio risponde, Henry passa all’Arsenal. È una scommessa grandissima, che suscita le perplessità di stampa e tifosi, specialmente dopo il clamoroso flop in maglia bianconera. Il tecnico, forte del double, ha piena fiducia da parte della società che si convince a sborsare 10 milioni di sterline.

L’inizio è terrificante, 8 partite consecutive senza segnare, nel ruolo di prima punta. Le critiche fioccano da ogni dove, tifosi e testate giornalistiche non sono mai stati tanto d’accordo quanto nel disapprovare l’acquisto di Henry.
Nessuno avrebbe scommesso un penny sul fatto che undici anni dopo, fuori dall’Emirates, avrebbe giganteggiato una statua bronzea raffigurante il centravanti in una delle sue 228 esultanze davanti alla propria gente. Sì avete capito bene, 228, come lui nessuno con i colori dei Gunners.
Il ragazzo dichiara di “dover rimparare tutto riguardo all’arte del segnare”. Se non altro  impiega ben poco tempo a ricordare come si fa: termina la stagione collezionando 26 reti e 11 assist in 47 gare, un secondo posto in campionato e una finale di coppa UEFA persa con il Galatasaray.
Il lavoro decennale di Wenger raggiunge la sua sublimazione. Henry si afferma come uno dei centravanti più completi ed allo stesso tempo atipici mai visti su un campo da gioco. Ha il fisico di una prima punta, la tecnica di un fantasista, la velocità di un’ala. In campo risulta semplicemente inarrestabile, danza sul pallone con la grazia di un fenicottero sull’acqua; segna in ogni modo possibile, destro, sinistro, all’occorrenza anche di testa. È imprevedibile in ogni sua movenza, poiché ha a sua disposizione un repertorio di giocate talmente ampio che rende impossibile capire cosa aspettarsi. Può scegliere di venire incontro a ricevere il pallone, spalle alla porta, ed attaccare l’area con la veemenza di un vero numero nove, gettandosi sul primo o sul secondo palo come un rapace; oppure può scegliere di decentrarsi e prendere di infilata le difese con i suoi dribbling ubriacanti e il consueto piattone destro; o ancora è libero di scegliere di spaccare la porta dalla distanza con un missile terra-aria.

Nell’Estate del 2000 trascina la Francia nella vittoria dell’Europeo ai danni dell’Italia in una finale al cardiopalma. Henry realizza 3 reti in 6 presenze.
Alla seconda stagione sulle sponde del Tamigi si riconferma su livelli altissimi, mettendo a segno 22 centri complessivi e consacrandosi nuovamente bomber e assistman della squadra. Londra ormai è sua, la numero 14 diviene un simbolo da idolatrare: Titì Henry, il ragazzo dal piatto di piuma, l’oro di Highbury.
Il francese infrange un record dopo l’altro, basti pensare che nelle prime quattro stagioni con la maglia dei Gunners non scende mai sotto i venti gol, arrivando a sfondare quota 100 reti.
Arriviamo alla stagione 2003-2004. È un anno destinato a rimanere scolpito nella memoria dei tifosi dell’Arsenal: l’anno dell’armata degli invincibili.
Wenger confeziona con la sua sagacia tattica una macchina perfetta, bella da vedere e infallibile sul campo.
La squadra è semplicemente sensazionale. Tra i pali c’è il neo acquisto Jens Lehmann, deputato a presidiare dalle retrovie il quartetto difensivo formato da Cole, Campbell, Tourè e Lauren. Due terzini che macinano chilometri ai lati di due centrali sontuosi nel gioco aereo e fisicamente: un mix perfetto. La mediana conta due giocatori che in campo giganteggiano letteralmente: Patrick Vieira, prototipo del centrocampista moderno, gioca al fianco di Gilberto Silva, meglio conosciuto come “The Invisible Wall”, brasiliano per caso, interdittore formidabile. La fascia sinistra è la passerella per Robert Pires, l’eleganza fatta numero 7; sulla destra invece agisce l’infaticabile Freddie Ljungberg, macinatore di chilometri in grado di coniugare qualità e quantità. A rendere il quadro perfetto è il duo offensivo, costituito da due reietti del calcio italiano: Thierry Henry, scarto della Juventus, affiancato da “Le Dutch”, meglio noto come Dennis Bergkamp, addirittura deriso dalla Milano nerazzurra.
L’armata di Wenger termina la stagione totalizzando ben 90 punti, vincendo la Premier con “appena” 11 punti di distacco sul Chelsea secondo in classifica.
Henry si accontenta di 30 reti messe a segno nell’arco della stagione, sì, avete capito bene.
Titì entra di diritto nell’olimpo del calcio inglese. Highbury ha trovato il suo Dio.
La vittoria del campionato accende i riflettori sull’Arsenal, le aspettative di un lungo ciclo di vittorie crescono. Sarà solo un miraggio. Quella macchina perfetta, apprezzata nella stagione degli Invincibili, rimane espressione di un calcio estetico ma perde in concretezza. Alterna sprazzi di calcio cristallino a momenti di black-out totale, passando così alla storia come eterna incompiuta, in Inghilterra come in ambito internazionale.
L’Arsenal sfoggia la sua bellezza nella vetrina più prestigiosa d’Europa, la Champions, ed Henry non può che essere protagonista indiscusso.
È il 21 Febbraio del 2006, al Santiago Bernabeu si gioca Real Madrid-Arsenal. È la partita di “Goal, il film”, quella in cui Santiago Munez rimonta il risultato e regala alle merengues il passaggio del turno. La realtà però è ben diversa. Henry ammutolisce il Bernabeu regalando ai tifosi madrileni incubi per le settimane avvenire. Decide di eliminare i Galacticos con un gol fantascientifico, scartando quasi tutta la difesa e insaccando il pallone alle spalle di Casillas.

Sembra essere l’anno ideale per vedere l’Arsenal levare in aria la coppa dalle grandi orecchie. Ad infrangere il sogno ci penserà il Barcellona di un immenso Ronaldinho, proprio al fotofinish, in una finale al cardiopalma.
È una partita che lascia scorie pesanti. Nell’anno successivo, il mancato riscatto fa sì che per Henry si rompa qualcosa. Titì è un figlio adottivo della riva del Tamigi, ha sempre onorato e dato l’anima per maglia dei Gunners, ha portato la fascia di capitano in maniera esemplare, ha sempre ringraziato sul campo il suo mentore calcistico. Per tutta questa serie di motivi decide che la sua carriera a Londra debba finire senza macchia.
Nell’Estate del 2007 Henry lascia l’Arsenal e si trasferisce proprio a Barcellona, alla corte di Pep Guardiola.

Al Camp Nou va a comporre un tridente pazzesco con Messi e Eto’o. In maglia blaugrana vince l’unico trofeo mancante nella sua bacheca, la Champions League 2008-2009, laureandosi anche campione di Spagna. A Barcellona vive una sorta di ritorno alle origini calcistiche: Guardiola gli chiede sì di fare il centravanti, ma in una posizione leggermente decentrata. Il resto è poesia.
Dopo tre anni ricchi di successo Henry, spente le trentatré candeline, decide di andare a divertirsi in America, ai New York Red Bull. La storia sembrerebbe finire qua; invece no, una pennellata a dir poco romanzesca tinge il finale di carriera di Titì.
Durante i mesi invernali la MLS va in ferie: il francese, per mantenere una buona condizione fisica, trova un accordo bimestrale per tornare in prestito all’Arsenal. Titì dovrebbe solo allenarsi, i media dipingono il trasferimento come un favore fatto dalla società nei confronti di un ormai ex-giocatore che aveva fatto la storia del club londinese.
A sedere sulla panchina dell’Arsenal è ancora Arsene Wenger: per lui l’immagine di Henry in tribuna è un abominio, tant’è che decide di portarlo sempre in panchina con la squadra.
In una fredda notte di Gennaio, l’Arsenal affronta il Leeds in FA CUP. Il risultato è in bilico sullo 0 a 0, i Gunners non riescono a trovare la via del gol. D’improvviso Wenger si gira verso la panchina e chiama a sé il suo secondo; dopo un breve consulto, la scelta è presa: è il momento di Thierry Henry.
Il popolo dei Gunners, incredulo, acclama il nome del suo beniamino, che al 68esimo minuto sostituisce uno spento Chamack.
L’abbraccio dell’Emirates è qualcosa che è difficile da dimenticare: il boato di speranza è assordante, le grida sono quelle di un padre felice di accogliere nuovamente un figlio a casa, rimasto lontano per troppo tempo.

Neanche dieci minuti dopo il romanzo si compie. Come nei finali delle più belle storie d’amore, Titì riceve la palla sulla fascia sinistra, entra di forza in area e con il consueto piatto destro piazza sul secondo palo un rasoterra imprendibile per il portiere. E’apoteosi.

L’Emirates ha ritrovato il suo Dio, Henry ha ritrovato la sua gente.

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