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sabato 27 Luglio 2024
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Kevin Keegan: le origini

Gli inizi di uno dei giocatori inglesi più iconici di sempre

5 ' di letturaPaul e John non sono d’accordo sul testo di quella canzone. Devono trovare un punto comune, venirsi incontro. In fondo entrambi sanno benissimo che quel disco sarà l’ultimo inciso insieme, una sorta di testamento spirituale a cui tengono molto. Poi ognuno per la sua strada. Paul ha perso la madre a 14 anni e in qualche modo prova a ricordarla, a rendergli omaggio. E allora scende in profondità, scivola nell’irrazionale, rivela che l’ispirazione gli arriva direttamente da un sogno nel quale aveva parlato con sua mamma Mary. Nel sogno, la madre gli offre consigli, lo rassicura sulle ultime tensioni, lo supplica di lasciar correre, to let it be: tutto si sarebbe aggiustato. John, da dietro gli occhialini rotondi accoglie la canzone con malcelato sarcasmo, successivamente giungerà a deriderla, perfino pubblicamente. Lui ha un indole ribelle, al limite dell’ateismo, considera l’opera troppo “pseudo-religiosa”. Alla fine comunque da suo assenso, approva, convincendo Paul a virare leggermente attorno a certe strofe.

“Let It Be” è la sesta traccia dell’omonimo album dei Beatles del 1970. Resta l’insofferenza di John per il pezzo, confermata dalla collocazione della canzone sull’album, posta appena dopo l’irridente frase di Lennon: “And now we’d like to do ‘Hark The Angels Come!’” e subito prima dell’esecuzione di Maggie Mae, dedicata ad una prostituta di Liverpool. E McCartney, cattolico di nascita, a quel punto decide di piazzare la ribattuta, allargando gli orizzonti del messaggio, e autorizzando a interpretare la canzone anche in riferimento alla Vergine Maria. “When I find myself, in times of trouble, Mother Mary comes to me, speaking words of wisdom, Let it be”

Dopo quel siparietto polemico il quartetto si scioglie; l’impatto di “Let it Be” in ogni caso sfiora quello indescrivibile di Penny Lane quando l’incantesimo dei Beatles si scatenò poderoso e inarrestabile. Eppure in qualche modo, su una Mersey divenuta improvvisamente silente, stava per arrivare un ragazzo che seppure in un campo diverso ma non meno amato, colmerà il vuoto lasciato da John, Paul, Ringo e George; un ragazzo pieno di ricci, dalle basette sassoni, piccolo, robusto, prorompente e geniale. E, ironia del destino, anche stavolta c’è di mezzo una madre con lo stesso nome: Madre Mary. Suor Mary Oliver, la direttrice della scuola Saveriana di Bally Bridge a Doncaster.

I narcisi stanno sbocciando sui pendii intorno a Armthorpe, modesto villaggio minerario dello Yorkshire, riversando il loro giallo scintillante sui prati. Kevin è poco più di un bambino; dal piccolo giardino di casa aveva osservato i brandelli di nubi che passavano nel cielo azzurro chiaro e aveva odorato il tiepido vento carico di primavera e di promesse. Appoggiò accuratamente il pallone ai piedi del ciliegio in fiore e si diresse verso la cassetta della posta, collocata su di un lato della porta d’accesso sotto una angusta tettoia di ferro utile nel ripararla dalla pioggia, ed estrasse la copia dell’Evening Post. Scorse rapidamente tutte le pagine fino a giungere alle notizie sportive dove con somma gioia trovò una bella foto di Billy Wright, il suo idolo, il capitano del Wolverhampton e dell’Inghilterra. Quella sera, quando il padre Joe si sarà saziato a sufficienza di leggere i resoconti sulla guerra fredda e i proclami del Primo Ministro conservatore Anthony Eden, si sarebbe appropriato del quotidiano ritagliando la fotografia del campione e conservandola in un cassetto insieme a tutte le altre precedenti. Almeno fino al termine degli anni cinquanta, sebbene arrivata alla fine di un ciclo, la società inglese rimaneva fedele a sé stessa e alla propria tradizione iconografica e sociale. Una realtà a parte rispetto al resto d’Europa, dove il cricket restava ancora lo sport nazionale, l’ora del tè un rito necessario, la bombetta nera un’aspirazione e tutto si rifaceva a una questione di stile, di etichetta.

E Kevin, Kevin Keegan, finisce naturalmente al college. A quindici anni pratica con discreto successo diverse discipline sportive, tuttavia non ci sono dubbi: quando il ragazzo si cimenta nel calcio sprizza un entusiasmo e un talento strabiliante. Inarrestabile nel verde vellutato, ruggisce nel breve, sguazza a suo piacimento anche nel fango e se la palla annega, il terzino cede lo stesso alla finta. Eppure ad accorgersi della sua predisposizione non sarà un talent scout e nemmeno il suo professore di educazione fisica bensì una suora. Madre Mary Oliver non perde tempo, scrive delle note sul diario personale di Kevin e dopo una triangolazione telefonica arriva Jeff Barker osservatore dello Scunthorpe United all’epoca militante nella Quarta Divisione. Barker se lo porta con se e lo affida al manager Ron Asham, un duro, un allenatore intransigente, che nello spogliatoio rivolgendosi ai nuovi giovani arrivati si fa intendere alla svelta: ”Se credete di essere qui per giocare a calcio, sbagliate. Il vostro compito è quello di tenere in ordine i cessi!”

Kevin pulirà qualche bagno ma presto esordirà in prima squadra. Di più, la trascina nell’impresa di battere lo Sheffield Wednesday. E’ sabato 24 gennaio 1970 e lo Scunthorpe United espugna per 2-1 Hillsborough nel quarto turno della FA Cup davanti a quarantamila persone. Segneranno John Barker e Nigel Cassidy; Keegan offre una prestazione da sballo che lo proietta sotto le luci della ribalta e sotto il fiuto delle grandi squadre. Dribbla dovunque, converge, dialoga. Curiosamente è nato il giorno di San Valentino, spedisce passaggi che assomigliano a lettere d’amore in un esplosione di estro, rock e criniera. Per lui si muove niente meno che Bill Shankly.

 

L’allenatore scozzese del Liverpool sa come andare dritto al cuore e alle tasche della gente, approfitta delle incertezze altrui per lanciare la stoccata decisiva: 35mila sterline e il diciannovenne Kevin Keegan si sistema per il momento nella squadra riserve dei Reds. Negli allenamenti sui campi di Melwood, Kevin crea scompiglio, imbarazza difensori esperti come Chris Lawler e Tommy Smith. La gloria non può attendere: Il 14 agosto 1971 debutta in Prima Divisone davanti alle telecamere della BBC salite a Liverpool per il seguitissimo Match of the Day, e davanti agli occhi di un orgogliosissimo papà Joe. Passano appena tredici minuti di gioco e Kevin infila la porta del Nottingham Forest. Sembrerebbero pochi indizi, invece sono sufficienti. Anfield pregusta un futuro radioso. Sui muri in mattoni d’arenaria rossastra di Liverpool, sui vecchi Docks screpolati dal tempo e dalla salsedine, qualcuno incomincia a scrivere a calce dell’arrivo del nuovo Re.

 

King Kevin Keegan. Lascia che sia…

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