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mercoledì 15 Maggio 2024
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La mia ultima stagione a Boleyn Ground

Intervista a Roberto Gotta, autore del libro "Addio West Ham"

6 ' di letturaRoberto Gotta, nato nel 1964, segue il calcio inglese dalla metà degli anni Settanta.
All’inizio, aggrappandosi al pochissimo che arrivava in Italia: notiziole sui quotidiani sportivi (li leggeva ancora, al tempo), il Guerin Sportivo e, il sabato dalle 16, le dirette radiofoniche delle partite grazie al segnale del BBC World Service, che aveva il pessimo difetto di perdere di potenza intorno alle 18.15, quando cioé la celebre voce di James Alexander Gordon annunciava i risultati di tutte e quattro le serie inglesi più quelle scozzesi.

Nel 1979 il viaggio-studio per imparare l’inglese, opportunamente scelto da metà agosto in poi e la prima partita (Charity Shield 1979, Liverpool-Arsenal); e da lì non si è più fermato, con decine se non centinaia di viaggi in tutto il Regno Unito, ed anche negli USA, diventando anche un punto di riferimento nazionale per la NFL, con oltre venti Super Bowl visti dal vivo.
Nel 2003 ha pubblicato “Le reti di Wembley” (viaggio nostalgico nella Londra del calcio, seconda edizione nel 2018), libro diventato un piccolo culto tra gli appassionati anche perchè ormai introvabile nella sua edizione originaria, nel 2016 ha scritto “Addio West Ham“, cioé il resoconto della stagione 2015-16, nella quale si è abbonato agli Irons e ha seguito dal vivo 18 delle 19 partite in casa, spesso arrivando e partendo con acrobazie logistiche.
È un omaggio allo storico stadio Boleyn Ground, casa della squadra dal 1904 al 2016, con il calcio e l’impianto a fornire lo scenario per un’analisi storica ed empiricamente sociologica sulla zona est Londra.

Roberto, come hai vissuto l’addio al Boleyn Ground?
Ovviamente non l’ho vissuto bene, come non vivo bene l’abbandono di qualsiasi stadio storico, bello o brutto che sia. Semplicemente perché sono in genere gli stadi in cui si è sviluppata gran parte dell’esistenza di un club nel periodo in cui il calcio diventava un’abitudine anche radiofonica e televisiva. Al punto da far dimenticare fatti importanti, ma lontani nel tempo.
Highbury, per esempio, venne chiuso nel 2006, nel rimpianto di molti, ma nel (legittimo) dolore e amore per l’addio ad Highbury non veniva in mente a molti che il club in origine nemmeno aveva sede nel nord di Londra, ed anzi nel 1913 si era spostato da Plumstead/Woolwich, che era addirittura a sud del Tamigi.
Uno spostamento clamoroso, ai tempi, ma che nel corso dei decenni era stato messo in secondo piano: nell’immaginario, l’Arsenal era nel quartiere di Islington, nord di Londra, e basta. Perché – legittimamente – nei quasi 100 anni precedenti, e specialmente nell’era radiofonico-televisiva, l’Arsenal era stato quello.
Stesso discorso ovviamente per il Boleyn Ground: 112 anni lì, ma le origini erano state in altre zone, seppur vicine, e tra l’altro nel libro le ho esplorate tutte, letteralmente passo per passo. Ma la mia generazione e le due precedenti quando hanno sentito la parola ‘West Ham’ hanno pensato solo a quell’impianto, nelle sue tante forme.
Perché la cosa interessante è ovviamente questa: il Boleyn Ground nel quale l’abbonato ultrasettantenne seduto alla mia destra aveva visto la sua prima partita era diversissimo da quello in cui seguì l’ultima (anzi, la penultima, perché all’ultima non c’era), eppure era sempre lo stesso stadio, nello stesso identico luogo, a cui si accedeva dalle stesse vie. Luogo prima di tutto, impianto subito dopo, e la loro somma faceva la tradizione.
Come italiano cresciuto in Italia del resto non riesco ad appassionarmi emotivamente a una squadra e ad un ambiente straniero, molto lontani da noi come lingua, ambiente, mentalità: posso avere simpatie momentanee, anche di settimana in settimana, ma quello che conta sono le strutture fisiche, la storia e le tradizioni.
Che sono generali e svincolate dal tifo, per cui la loro perdita mi addolora sempre.

Nell’ultimo anno del Boleyn Ground, che hai raccontato nel libro, dei tanti aneddoti, impressioni, odori, personaggi, partite che hai vissuto ce n’è uno in particolare che ti ha espresso il senso di appartenenza a quel mondo?
Faccio fatica a ricordare un solo evento, scelgo però due situazioni o personaggi.
Ovvero, la sensazione che avevo, ogni volta, quando arrivavo al mio posto, il 34 della fila S del secondo piano della tribuna Bobby Moore (quella dietro la porta a destra, nelle immagini tv), mi sedevo, appoggiavo lo zainetto e mi guardavo intorno. Specialmente verso sinistra, nello spiraglio con la tribuna principale, scorgendo ad ovest edifici alti della City e del porto, e verso destra, oltre la East Stand, più in là dei casermoni, dove si intravvedeva lontano il traffico sempre intenso della North Circular.
Era una particolarissima sensazione, miscelata in tre parti: il sollievo di avercela fatta anche quella volta ad arrivare, il disorientamento nel sentirmi a casa in un luogo che era tutto tranne che casa e l’attesa di quello che sarebbe accaduto.
Quanto ai personaggi, mi è rimasto positivamente impresso l’atteggiamento di un gruppo di tifosi, che potevano avere dai 25 ai 30 anni , seduti una fila sotto la mia: erano quattro o cinque, vestiti con cura ma senza esagerazioni dandistiche, e sembravano la classica compagnia di amici che dall’asilo in su vanno allo stadio assieme e non concepiscono affetto per altra squadra che non sia quella della loro zona. Hanno tifato per tutto l’anno, solo raramente li ho visti insultare qualcuno, e per me rappresentano l’ideale del tifo: locale, appassionato, non smodato, non inquadrato, non eterodiretto da tizi con megafono o elenco di cori.
È il ricordo migliore, tra tantissimi. Poi magari venivano da Norwich o Hastings e nemmeno sapevano cosa ci fosse dietro al Boleyn, ma l’impressione che ho, e che voglio tenere, è quella di gente nata e cresciuta lì e che magari ora, borbottando, va anche allo Stadio Olimpico.

Tra tutte le partite che hai visto nella tua vita al Boleyn, ce n’è una che per un qualsiasi motivo ti è rimasta nel cuore?
È chiaro che l’ultima partita contro il Manchester United ha lasciato una traccia. Di emozione, chiaramente. Anche per via della gara in sé, finita 3-2 con rimonta, e quelle sono le circostanze in cui si attivano le simpatie momentanee a cui ho accennato prima: volevo a tutti i costi che il West Ham vincesse e chiudesse bene la propria storia in uno stadio che del resto non aveva un passato di trionfi.
Gli unici trofei del club sono arrivati a Wembley (tre FA Cup, la Coppa delle Coppe del 1965, la seconda finale di playoff-promozione), a Cardiff (la prima finale promozione) e a Metz (Coppa Intertoto, fingendo che contasse), e al Boleyn si ricordano tante partite importanti ma nessuna che sia passata alla storia, a parte forse il quarto di finale di FA Cup del 1980 contro l’Aston Villa, con gol su rigore di Ray Stewart all’ultimo minuto.
Però lì non c’ero, dunque è un discorso a vanvera.
Tornando a quel 10 maggio, e allo specifico della domanda, mi colpì molto l’atmosfera sull’1-2: per una volta, in una stagione con molte soddisfazioni ma anche parecchi mugugni e lunghi silenzi – tali erano, non è vero che lo stadio fosse una fornace di baccano costante – la percezione era che in qualche modo il risultato sarebbe stato ribaltato.
Oltretutto, la gara era iniziata in ritardo per la difficoltà del pullman del Manchester United ad arrivare allo stadio, circondato da migliaia di persone che erano lì perché… quella sera si doveva essere lì, e purtroppo al pullman stesso erano stati lanciati oggetti, non l’unico gesto incivile di quella serata ingestibile sul piano dell’ordine pubblico.

Adesso è il quarto anno del West Ham nella nuova casa.
Nonostante le modifiche lo stadio, a detta di tanti, non è uno adatto al calcio, e non è un caso che la squadra abbia collezionato solo annate anonime: adesso, a campionato sospeso, sarebbe salvo solo per differenza reti.
Come vedi questo cambio di stadio e quali possono essere le prospettive visto che è impensabile che il club cambi ancora casa? E pensi che la tifoseria, che conosci bene, si potrà mai adattare definitivamente a riconoscere come nuovo nido lo stadio a Stratford?
Beh, in realtà la tifoseria non la conosco così bene. Leggo qualcosa ogni tanto per informarmi sulle tendenze di massima ma cerco di non farmi influenzare dal pensiero di chi spesso è troppo coinvolto emotivamente, voglio sempre poter giudicare con la mia testa. Ovviamente il punto focale della delusione è totalmente legittimo: in cambio del sacrificio del Boleyn Ground era stato promesso un futuro da parte alta della classifica e tentativi regolari di ingresso alla Champions League, ed invece il rendimento è peggiorato.
Non si può dire tra l’altro né che il club non avesse un progetto né che non abbia investito. Il progetto infatti era quello con Manuel Pellegrini allenatore e il suo compare di mercato Mario Husillos a gestire gli acquisti. E tra 2018 e 2019 due volte è stato superato il record di spesa per un giocatore, prima Felipe Anderson per 36 milioni di  sterline poi Sebastien Haller per 45. Però nessuno dei due, così come altri, ha reso come poteva.
Per cui, fallito per ora l’obiettivo di annullare il dispiacere per l’addio al Boleyn Ground con un miglioramento di risultati, è chiaro che il disappunto emerge e va a investire il resto, in primis la situazione dello stadio, che nonostante qualche adattamento anche cromatico resta non adatto alla visione di una partita di calcio secondo criteri abituali del calcio inglese.
Unico punto a suo vantaggio: quando si vede in tv si riconosce subito, paradossalmente come accadeva agli stadi di una volta, fatti non in fotocopia come molti (Sunderland, Southampton, Middlesbrough, Cardiff, Swansea, eccetera) degli ultimi 10-15 anni, i famosi identikit stadiums come dicono lassù. Tra l’altro, questo bisogna dirlo, l’Olimpico dista dal luogo di nascita del club, nel punto dove il fiume Lea finisce nel Tamigi, solo 6-700 metri più del Boleyn Ground.
Quindi, non è che il passaggio al nuovo stadio abbia rappresentato di per sé un tradimento delle origini: per assurdo, il West Ham, con il nome originario di Thames Ironworks, era nato sull’acqua, e sull’acqua è tornato, dato che il Lea passa a fianco dello Stadio Olimpico. Il giorno in cui il West Ham dovesse combattere per un posto tra le prime quattro comunque il disagio dello stadio passerebbe in secondo piano.
Ma non è detto che quel giorno arrivi, per cui nel frattempo se vedi male da metà tribuna e pure una squadra mediocre ti arrabbi due volte.

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Alberto Emmolo
Alberto Emmolohttp://www.urbone.eu
Classe 1984, travolto da una grande passione per il football fin da bambino, appena possibile vola a Londra per "respirare" calcio, atmosfere e sensazioni. Nel maggio 2019 ha pubblicato il suo primo libro "Hat-trick - i grandi attaccanti della Premier League" (ed. Urbone Publishing)

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