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venerdì 19 Aprile 2024
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Il segreto di Packie Bonner

11 ' di letturaFonte: Ilnobilecalcio.it

Un’esortazione irlandese recita così: Trova tempo per aiutare gli altri. La giornata è troppo breve per essere avari. Un popolo intero si era fermato quel pomeriggio con gli occhi fissi sullo stadio Luigi Ferraris di Genova. Una palla gol per Sheedy, una per Raducioiu. Si rimane sullo 0-0 . Poi sul finire, un missile di Hagi all’incrocio e il portiere irlandese vola. Fino a quel rigore di Daniel Timofte. La foto indimenticabile è il tuffo sulla destra. Sfida ancora la forza di gravità col suo stile un po’ discutibile. E ci arriva. Quasi la blocca : “Avevo studiato i rigori . Timofte tirava alla sinistra del portiere oppure centrale. Poi un compagno gli sussurra di tirare alla mia destra, perché mi ritiene lento da quella parte. E lui all’ultimo momento cambia idea. E se non avesse cambiato idea, probabilmente avrebbe segnato. Non dimenticherò più quello che ho provato dopo quella parata”.

Il premier irlandese Haughey interrompe la riunione del Consiglio d’Europa. A Dublino fabbriche e negozi chiusi per la partita. Maxischermi dappertutto. Per la prima volta nella sua storia, la Repubblica d’Irlanda partecipa alla fase finale di un campionato del mondo e si qualifica per i quarti, battendo la Romania. E a Genova sono arrivati in ventimila. Si è giocato praticamente in casa. Ora si canta que serà , serà. Lui è inginocchiato davanti alla tribuna. Ringrazia Dio. Poi lo abbraccia Townsend . Arriva anche Cascarino. Ridono finalmente. Un’altra sua foto è in mezzo al campo: la gioia è inconsapevole e incontenibile , la bellezza estenuata da centoventi minuti sul filo dei nervi: “Ci siamo resi conto del nostro successo solo quando siamo ritornati in Irlanda. Anche adesso le persone parlano di the save . Ricordano dov’erano in quel momento. Dicono che gli ha cambiato la vita. Si avvicinano e ti ringraziano per quello che hai fatto per loro”. Perché Patrick Joseph Bonner o Pat o meglio Packie è l’eroe nazionale. Un’icona . E quella parata finisce anche su un francobollo.

“Io fino ai 36 anni ero sempre in giro col calcio . Il mio grande rimorso è aver perso la crescita dei miei figli : Andrew e Melissa. Ammiro mia moglie Ann che li ha tirati su. Oggi ho bisogno di staccare. Di prendere il mio tempo e starmene sulla spiaggia”. Viene da un minuscolo paese sul mare che si chiama Burtonport , contea di Donegal.

E’ Repubblica d’Irlanda a tutti gli effetti, ma è anche Ulster. Una delle tante dolorose contraddizioni . Suo nonno ha un peschereccio da traino. Ma suo padre soffre il mal di mare e abbandona tutto. Si mette a costruire. Gli dà una mano proprio Packie e l’altro figlio Dennis, suo gemello. “Ho avuto una splendida educazione. I miei genitori volevano un maschio dopo quattro femmine. Ma credo si siano spaventati quando ne hanno visti due. Vivevamo in riva al mare. Denis e io eravamo sempre fuori, correvamo. Eravamo uniti. Era bello avere qualcuno con la stessa età”. Packie Bonner è un gigante di poco meno di uno e novanta, ma non mette paura. E poi è un introverso. Parla a voce bassa e dolce, timbro tenorile. “I miei miti erano Shilton, Clemence e soprattutto Pat Jennings”. A sedici anni viene scartato dal Leicester. Torna in Irlanda e gioca col Keadue Rovers . Poi lo intercetta il Celtic Glasgow : “E’ stata una grande sfida per me andarmene dal Donegal a diciotto anni in una città industriale come Glasgow. Ma noi irlandesi siamo abituati a girare il mondo. Siamo resilienti, ci adattiamo”. Packie è l’ultimo acquisto di Jock Stein.

FESTA

Arriva all’allenamento con un cappotto orribile. Ha l’imbarazzo del ragazzo perbene, apprensivo. Esordisce in un giorno di festa, San Patrizio del ’79. Contro il Motherwell, si vince 2-1. “E quando sono arrivato in Scozia , ho capito quanto sia stato importante il Celtic per la comunità irlandese. Per darle un’identità”. E rievoca la vitalità di Yeats . Perché gli manca l’Irlanda: “Da noi vale la tradizione, c’è il rispetto delle radici . Da noi le mucche dormono in spiaggia per riposarsi dal vento. Trovi i cavalli bradi che nuotano nei laghi. E i cigni sono i più belli e più numerosi delle anatre. Da noi si va a cavallo come in Olanda in bicicletta e i cavalli possono portare anche uno come me, perché sono grandi e fieri. E quieti”. Nell’agosto 1980 sostituisce l’infortunato Peter Latchford : è un Celtic – Manchester United. Il reparto difensivo è composto da McGrain, Aitken, Reid e McAdam. Lui è già pronto, ha vent’anni.

Tanto da esordire in nazionale il 24 maggio ’81, contro la Polonia. A proposito quel giorno è anche il suo compleanno. “Poi improvvisamente è morto mio padre . Per me è stato uno schock. Andrew era una persona speciale, divertente. Grande narratore di storie. Mi sarebbe piaciuto fargli vedere i miei progressi”. Talvolta va in difficoltà sulla presa e ha una insopprimibile tendenza a sbattere contro pali e traverse. Ma è muscolarmente ben strutturato e il calcio c’entra fino a un certo punto: Packie è stato infatti il mediano di gaelic football della squadra più conosciuta di Dublino.

E’ lui il numero 9: “Il gaelic è lotta reale, contatto, impegno massimo. E’ lì che ho costruito il mio fisico, nelle mischie. Eppure non c’è violenza, non si fanno sceneggiate in campo . Non è che io non ami il calcio, ma il gaelic è più vero . Non c’è corruzione, non ci sono quattrini, ma c’è tutto l’entusiasmo di cui è capace un paese come il nostro”. Non sono anni facili. Il Celtic ha pochi soldi : “Quando nevicava sul campo, spariva ogni filo d’erba . Ma noi giocavamo lo stesso”. Per due volte consecutive si vince il Campionato con Billy McNeill in panchina , Charlie Nicholas e McCluskey in campo.

E’ il 29 settembre 1982, la sera della sua miglior partita col Celtic: Coppa Campioni contro l’Ajax di Cruijff e Lerby, battuto per 2-1 a domicilio ed eliminato. “Sono sempre rimasto al Celtic perché intorno a me c’era una grande forza aggregativa”. Una sera al pub conosce Ann. Per lui è un sollievo apprendere che la donna della sua vita di calcio non sa nulla. Poi dall’ ‘82 all’ ‘85 non si vince più. “Il gol più brutto nel 1983 al Parkhead con Ally McCoist, che mi segna dopo trentatrè secondi. E soprattutto l’anno dopo, finale di Coppa contro l’Aberdeen: sbaglio un’uscita e segna McGhee”.

PULIZIE

Entra in società con Pierce, il fratello di David O’Leary. Si occupano di pulizie. E l’hanno chiamata “Safe Hands”, quindi “mani sicure”. Quando si ritrovano a corto di personale, Packie non si tira indietro: ”Ero il numero 1 del Celtic, ma una notte ho pulito un autobus “. Intanto al Celtic sono arrivati Chris Morris e Mick McCarthy : accoppiata Campionato – Scottish Cup. In nazionale cambia tutto : c’è Jack Charlton in panchina.

“Ci ha dato serenità . Prima che arrivasse lui, in trasferta andavamo a giocare senza speranze. Che grande gruppo quello dell’ ‘88. Come una squadra di gaelic football o di rugby: Paul McGrath, Mick McCarthy, Kevin Moran, Tony Cascarino. Tutti grandi uomini. Ci mancava un po’ di creatività e di astuzia, ma riuscivamo a sopperire col cuore. In realtà neanche sapevamo di essere bravi”. Jack Charlton ha abolito i passaggetti e puntato tutto sulla long ball. Un complesso atleticamente sovradimensionato e con la difesa a prova di tritolo: “Giocando in quella nazionale, ho dovuto dimostrare a me stesso che potevo esibirmi ad alto livello. E quando tornavo al Celtic, mi sentivo più forte . Anche caratterialmente. Consapevole dei miei punti di forza e dei difetti”. C’è la prima storica qualificazione per la fase finale di un Europeo. Potrebbe bastare così.

E poi tutti a quell’Europeo volevano essere sorteggiati con l’Irlanda. Come fosse la cenerentola. Put them under pressure, lo dice anche l’inno irlandese. Serve Nils Liedholm per descrivere mirabilmente l’empito guerriero e il gioco battente di quella squadra: “Gli irlandesi sono quelli che corrono senza guardare la strada”. Primo avversario è l’Inghilterra: colonizzati contro colonizzatori. L’Irlanda non vince da quarantadue anni.

A torso nudo Jack Charlton proclama: “Gl’inglesi sono quelli che mi preoccupano meno. Non abbiamo paura di nessuno. Non ci spaventa perdere. Infatti giocheremo per vincere”. E al Neckarstadion di Stoccarda segna subito Ray Houghton, il più piccolo, ma di testa. Poi Packie Bonner le prende tutte e in tutti i modi: in tuffo, in uscita bassa, di piede e perfino in bagher: “La mia migliore partita in nazionale. Loro avevano grandi nomi, gente come Barnes, Butcher, Robson, Lineker. Invece hanno buttato la palla di qua e di là: troppo prevedibili. Gli ho detto di no e ancora no. E’ successo tutto con l’aiuto di Dio. Le mie preghiere sono state esaudite. Una speciale l’ho detta sul tiro fortissimo di Hoddle dal limite a dieci minuti dalla fine”.

In campo Packie compie più volte un gesto e ora lo rivendica: “Giocare è un lavoro terribilmente serio. E’ il mio lavoro. E io sono abituato nella mia famiglia a scandire i momenti delicati con il segno della croce”. Per la cronaca è imbattuto da ottocentodiciotto minuti, quattordici mesi. Nessuno come lui nel mondo.

 

I tifosi al seguito sono diventati trentamila. Ne arrivano anche dall’Irlanda del Nord: “La nostra è un’isola piccola e ancora non completamente libera , ma è la patria di tutti gli irlandesi sparsi per il mondo. Non è meno irlandese di me il bisnipote di un emigrante del secolo scorso, sia ora integrato nel benessere diffuso statunitense o stia lottando per trovare il suo spazio in un paese africano o abbia ripopolato le immensità dell’Australia”.

Mentre Jack Charlton tiene allegre conferenze stampa, Packie lascia la squadra e se ne va. Nessuno sa dove. Ognuno ha un suo modo di scaricare e ricaricare la tensione delle partite. Specie quando sono tutte importanti e così ravvicinate. E’ un segreto inconfessabile, ma prima o poi salta fuori. Non può farci nulla. Packie ha organizzato il viaggio e il soggiorno in Germania a un bambino. Per vedere gli Europei. E’ un bambino orfano. Packie lo va a trovare tutti i giorni. Sta un’oretta con lui, inclusi i giorni delle partite. Poi lo saluta e lo lascia alla ragazza cui è stato affidato.

Dopo il pareggio (largo) con l’Urss , Packie rimane a letto nella stanza d’albergo. “La schiena si era bloccata. Succedeva spesso in quel periodo. Vado nella stanza di Jack . E lo trovo intento a lavarsi le calze. Non mi guarda nemmeno”. Packie gli dice che per l’Olanda non ce la fa : “Jack mi ha guardato e mi ha detto: ‘Così tu ci butti a terra. Butti a terra me e tutto un Paese. Ora vattene affanculo’ . Sono andato dal preparatore atletico Mick Byrne e mi ha rimesso in piedi”. Si arrende solo all’ottantaduesimo. Resta tre mesi fuori per l’intervento alla schiena. Il Celtic intanto ne prende cinque dai Rangers. Quando rientra, si rivince la Scottish Cup. Viene consacrato tra i migliori cinque portieri al mondo. Ma sembra non curarsene, dal suo universo parallelo : “Non mi piace quello che sta diventando lo sport. Mi fanno ridere certi calciatori quando si rotolano per terra. Soprattutto Klinsmann e Caniggia . E Maradona, con quelle smorfie di finto dolore”.

Con furore iconoclasta sbarca a Italia ’90 . Quel calcio ipertrofico non lo avrà: “L’Europa ha industrializzato il calcio. Per questo le squadre europee appaiono più equilibrate rispetto alle altre. In compenso il calcio europeo ha perso di fantasia. Non ha più il campione, l’elemento estroso capace di inventare la giocata. Un brutto livellamento. Il calcio europeo vuole mantenere il proprio predominio, ma la via dell’intrigo politico e di questi dirigenti affaristi non è quella giusta. Di solito io rispetto gli arbitri perché sono la legge in campo, ma tutto il mondiale è stato falsato: dall’Argentina che non doveva passare il turno , alla qualificazione dell’Uruguay, all’arbitro austriaco per i tedeschi. Non può bastare un arbitro di potere , sensibile al fascino e ai voti degli inglesi. La verità è che i dirigenti sono i padroni di un’industria che si chiama spettacolo sportivo. Non mi piace come parlano di sport i giornali italiani. Non c’è misura, non c’è verità. E il campionato italiano non è il più bello, è soltanto il più ricco. Non ci verrei mai. C’è un brutto ambiente e poi si danno tutti tante arie. In fondo si gioca solo a pallone , mica facciamo ricerca nucleare “. La squadra di Jack Charlton è adesso la più fedele interprete del calcio britannico. Anche perchè l’Inghilterra si è convertita al libero fisso. Il Celtic ha ricevuto offerte, ma Packie non si muove: “Credo che per un portiere britannico come me potrebbe essere difficile giocare in Europa: da noi ci sono continui cross, c’è la necessità di essere padroni dell’area. E un contatto continuo tra portiere e difesa. Il mestiere del portiere è quello. Ecco perché mi piace la personalità di Zenga e non mi piace Higuita. Non andrò mai a giocare nemmeno in Inghilterra: gl’inglesi non mi piacciono e nemmeno i loro giornali. Sto bene a Glasgow. Magari nel ’92 smetto e torno a stare a casa, un po’ fuori città, dove i bambini imparano per conto loro a calciare la palla, non come a Glasgow o a Londra dove ci sono gli allevamenti giovanili, organizzati come quelli dei polli. E ci sono perché non c’è più un fazzoletto di verde libero. In Irlanda i ragazzi giocano per le strade perché le macchine sono poche e le distanze brevi . Nemmeno ti viene in mente di correre”.

UNA

Il ricordo più bello di quell’estate italiana è un’altra serie positiva di diciassette partite e diciannove mesi. E quell’ incontro nella sala Nervi di Roma, più precisamente Città del Vaticano: “E’ stato incredibile conoscere Giovanni Paolo II. Ti trasmette grande umiltà. E si era informato su di noi”. Infatti, quando Packie si avvicina, il Santo Padre intuisce: “Tu sei il portiere?“. Packie ha gli occhi rossi: “Alla fine del mondiale voglio andare a Lough Derg , un luogo di penitenza . Per alcuni giorni di preghiera”. Poi gli viene in mente che Karol Wojtyla gli ha detto ancora qualcosa: “Da giovane anch’io ero portiere”. Una sera Packie si ritrova al matrimonio di Chris Morris: “Era il giorno dopo una vittoria sui Rangers. Presi una sbronza , troppi rusty nail “ . E’ una miscela di scotch e un altro liquore scozzese, il drambuie. Packie soffre la nuova regola del retropassaggio: “Un giorno Ronnie Whelan mi passa una palla indietro e io gliela sparo addosso ‘ Ecco qua riprenditela ’. Si mise a ridere. Fai una cosa da vent’anni e qualcuno ti dice che non puoi farla più. Sono inorridito. E’ come il divieto di fumo in Irlanda”. Poi il 17 maggio 1994 dopo Aberdeen-Celtic, gli viene comunicato che sarà rottamato: lista gratuita e senza nessun preavviso. Anche in nazionale rischia il posto. Si parte per Hannover e si batte 2-0 la Germania, che non perdeva in casa da sei anni. Packie è infortunato , ma è lì dietro la porta ad incitare Alan Kelly.

Poi all’esordio mondiale contro gli azzurri di Sacchi , torna in porta. E’ il derby tra immigrati in America. Vince e senza neanche soffrire. Baggio e Signori gli fanno il solletico. Si passa il turno. “Ma non mi ero allenato bene. C’era un caldo insopportabile”. Quando si esce ancora contro l’Olanda, Packie si fa scivolare un tiraccio di Jonk. E’ sconvolto: “Sono andato in hotel e sono rimasto seduto per un po’ con la mia famiglia. Poi sono tornato con i compagni di squadra. Vicino l’ascensore ho incontrato Eamon Dunphy, il giornalista che spesso ci aveva criticato. Mi ha dato un bacio sulla guancia e se n’è andato. Le parole non servivano”. Al Celtic intanto in panchina è arrivato Tommy Burns e riesce a trattenerlo. “Anche se tutte le volte che sbagliavo in allenamento, diceva ‘Jonk, Jonk’. Ma il calcio è anche questo”. Con lui vince la quarta Scottish Cup, giocando la sua ultima partita contro l’Airdrie.

“Penso che in una lunga carriera in Nazionale, ci saranno sempre alti e bassi. Penso che i miei alti siano stati molti di più . E la gente ricorda soprattutto quelli. Mi destabilizzano quelli che mi ricordano gli errori. Oggi se ne fai due , sei fuori. Tutti i giorni li fanno rivedere su Sky Tv. Ai miei tempi potevi fare anche dieci errori: stavi ancora lì. You have to be strong mentally”. Sua nipote si chiama Una.

E’ la figlia di suo fratello Denis ed è nata con la spina bifida: “All’inizio, quando la gente parlava di quel rigore parato, m’imbarazzava. Non riuscivo a gestirlo. Non ero abituato a tanta attenzione. Negli anni ho imparato come affrontarlo e ho sfruttato l’episodio per raccogliere il denaro per la beneficenza. Cercavo un posto dove mettere i soldi. Adesso Una ha vent’anni e può studiare al college. Sta andando alla grande”.

Ernesto Consolo

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