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sabato 20 Aprile 2024
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“This is Anfield”: e chissenefrega! – La Crazy Gang di Wimbledon ’88

Quando la Crazy Gang di Wimbledon sbancò Wembley nella finale di F.A. Cup del 1988

8 ' di lettura“So you think you I got a funny face, well I’m not worried. And I don’t know why. Yes I don’t know why… Come on feel the noize. Girls rock your boys. We’ll get wild, wild, wild…”

Suona la sveglia. Apro YouTube. Guardo il calendario: questo è un mese ricco di ricorrenze di vittorie illustri e improbabili e altrettante sconfitte. E se una canzone potesse fare da colonna sonora ad una partita: questa calzerebbe a pennello per la finale di FA Cup del 14 maggio 1988. Mi tiro su, accendo una sigaretta e, inevitabilmente, i ricordi tornano indietro… al video della “Gialappa’s band” che manda Teocoli a Londra, sulle tracce di “Fashi”: ovvero John Fashanu. Essere stati adolescenti negli anni ‘90, vuol dire aver vissuto alcuni dei migliori anni della storia del calcio, anche radiofonica e televisiva. Eppure, ci siamo persi tanto altro: e bisogna scavare ancora un po’ più indietro… questo è un evento di quelli. Una favola in cui vince il giullare. E il principe imbellettato, in (calza)maglia rossa, rimane a guardare…

Sul Wimbledon degli anni 1986-1990 è stato scritto molto: è vero, erano una banda di matti, di pazzi furiosi. E quella finale, che è stato il punto più alto di questa “epopea” (se vogliamo chiamarla così), è stata una di quelle volte in cui il “dio pallone” ha smesso di girare, s’è procurato una birra e delle patatine, e s’è beatamente seduto a bordo campo a godersi lo spettacolo: enjoy! Disse Alf Ramsey: “Se il calcio fosse lo sport dell’inferno: il Wimbledon, le partite in casa, le giocherebbe nel girone degli stronzi”. Perché non sempre vincono i primi della classe, i cosiddetti “buoni”, quelli che sulla carta sembrano i migliori. E menomale! Dicono che la fortuna aiuti gli audaci. Beh: loro ne sono stati un chiaro esempio. Irriverenti e potenti come un pezzo rock in puro stile inglese. Dove non arrivavano con la tecnica, arrivavano col fisico. Perché “Il pallone è come una ragazza: gli piace essere accarezzato; ma a volte, poi, anche violentemente sbattuto”, come sembra disse “King” Eric Cantona, in una delle sue perle.

Il destino s’è voluto divertire un po’ in quella zona a sud-ovest di Londra, dove andò in scena una nemesi che vedeva da una parte: i campi da tennis, sotto i riflettori mondiali almeno una volta l’anno, frequentati da pantaloncini e gonnellini bianchi, mise impeccabili e un gran giro di soldi (menomale John McEnroe a ravvivare un po’ l’ambiente patinato); dall’altra: una sparuta ventina di ragazzacci, spettinati, perennemente sporchi di terra e politically scorrect. Nemesi che ritroviamo anche sui campi da calcio della prestigiosa First Division, la Premier League di allora: chiunque dovesse andare a giocare dalle parti di Plough Lane, molto probabilmente imprecava in gaelico o, viceversa, recitava l’intero rosario… (ma ce l’hanno il rosario i protestanti? – va beh).

Dopo anni in cui la squadra aveva lottato nel pantano delle serie inferiori, sale finalmente nella serie “regina”. Buona parte del merito va a tale Sam Hammam: il presidente della società. Imprenditore mediorientale che si era trasferito in Inghilterra alla ricerca di ulteriore fortuna: ha praticamente messo insieme una squadra che rispecchiava il suo carattere sopra le righe e vi ha infuso la sua voglia di rivalsa. Perché è questo che accomunava tutti. Qualcuno si è mai chiesto cosa ci fosse dietro? C’era la voglia di emergere da un passato non facile: con qualunque mezzo e in qualunque modo. I ragazzi che vestirono quella maglia, in quegli anni, si ritrovarono in una perfetta quadratura del cerchio, nella quale si mischiavano talento e furore agonistico.

L’impronta di Dave Basset, in panchina tra il 1981 e il 1987, fu proprio questa: niente schemi, tatticismi, roba da ore davanti alla lavagna… Scendete in campo, tirate quella palla, cercate di fare gol e cercate di non prenderne: a tutti i costi. Lui lasciava sfogare i propri giocatori. E se la palla non entrava: lì iniziavano ulteriori guai… Dave non ha raccolto tutti i frutti del suo lavoro: ha lasciato le redini proprio ad inizio stagione ’87-’88 a Bobby Gould, un altro abituato a lottare nelle parti basse, che non cambia una virgola di quanto creato dal suo predecessore. Non c’erano altri modi perché quella squadra funzionasse. Un modo di intendere il calcio che faceva storcere il naso ai più, suscitando il giudizio sprezzante pure di Gary Lineker: “Il miglior modo di guardare il Wimbledon è al televideo”. Ma loro non se ne curavano minimamente. “This is Anfield”: e chissenefrega! Fu questa la reazione di Vinnie Jones, in un game away di campionato a Liverpool. Frase che riassumeva un po’ lo spirito collettivo che li legava. Niente sudditanza psicologica. Chi si credevano di essere? Beh: tempo dopo, nel maggio 1988, i Reds erano quelli che si avviavano alla conquista dell’ennesimo titolo e consideravano probabilmente una formalità anche la F.A.Cup. “Ah, no: accidenti, il Luton non è riuscito ad eliminare quelli in maglia giallo-blu e adesso dovremo sporcarci le mani… Ma che sarà mai!?!?” Più o meno devono aver pensato questo, sulle rive del Mersey: ma Vinnie e compagni non ci stanno…

Il John Fashanu che vi citavo all’inizio fu una vera e propria colonna portante: un marcantonio, dal fisico imponente e dalla personalità incisiva. Aveva sviluppato un ego importante: che esibiva nei modi di fare, in campo e fuori. Probabilmente il vero simbolo di quella squadra. Un “Big Ben dei campi inglesi” (cit. ironica ma realistica di Teo Teocoli). Attaccante incubo dei difensori anche perché, per segnare, non esitava anche ad usarli come sponda: e se non reggevi il peso di un bronzo di Riace in azione (cosa che succedeva regolarmente – anche in fase di recupero palla), ti ritrovavi per terra, gambe all’aria. Correre su un prato verde era il suo modo di aggrapparsi alla vita. Emergere, tirare di potenza, abbattere l’avversario, ostentare i soldi guadagnati: era il tentativo di mettersi alle spalle un’infanzia difficile. Figlio di immigrati africani, passato dall’orfanotrofio e finito in adozione: il calcio era la sua valvola di sfogo, come per altri compagni di squadra. Lo era anche per suo fratello Justin che però, a differenza sua, non resse alle pressioni intime ed esterne (la sua storia è tristemente nota). Ma anche John era fondamentalmente un buono: non era cattivo, lo disegnavano così! No, scherzi a parte: era un buono, ma in campo era cattivo davvero.

D’altronde, in guerra (e amore) tutto è permesso, no? E un match era una guerra. Chiedere a Lawrie Sanchez: centrocampista, un altro melting pot (padre ecuadoriano e mamma nord-irlandese), che in campo ci sputava il sangue. E magari metteva in mezzo anche una mano o altre scorrettezze: tutto, pur di segnare… Un tipo buono e caro, socievole come sanno essere i sudamericani, che si divertiva a giocare ma che però odiava perdere: esattamente come gli altri. E il mitico portiere, Dave Beasant: faccia da fratello scemo, col sorrisetto beffardo, sotto una cascata di capelli che avrebbero fatto inorridire i Beatles; ma un ragno perfetto, all’occorrenza. Lasciò il segno in quella finale: per vincere, i Reds, avrebbero dovuto letteralmente passare sul suo corpo… cosa che non gli riuscì. Un altro personaggio di quella squadra fu Dennis Wise, ala di centrocampo, futuro talento del Chelsea: che a vederlo avresti detto fosse il classico piccoletto bullizzato da tutti, usato come sacco per i pugni… E probabilmente aveva avuto i suoi problemi a scuola: perché in campo si rivela una scheggia impazzita. È una faccia d’angelo che non ha intenzione di prenderle: e così aveva imparato a darle. E a confezionare assist e segnare pure.

Al gallese Vinnie Jones tocca la palma del cattivo per eccellenza. Proprio lui: quello della “strizzatina” ai gioielli di “Gazza”. In effetti, col suo fare strafottente e le sue entrate assassine, si calava perfettamente nella parte. Una sorta di Pasquale Bruno in salsa inglese. Probabilmente con una fama peggiore di quello che poi fosse: perché, diciamocelo, quello fu un ruolo che si divertì ad interpretare (cosa che farà brillantemente anche al cinema – soprattutto a fine carriera). Fisico “tozzo”, faccia da bullo, con la tipica fisionomia ed espressività britanniche. Non fece nulla per discostarsi da questa cosa: anzi, sembrava proprio ci provasse gusto e si nutrisse dell’antipatia altrui. Sarebbe stato un personaggio perfetto per la penna di Irvine Welsh o Jonathan Coe. Agli avversari non ne lasciava passare una. Secondo per cartellini rossi solo a Roy Keane: 12 contro i 13 dell’irlandese. Ma centrò l’espulsione più veloce della storia: solo 3 secondi dopo il fischio d’inizio.

A legare loro e tutti gli altri, era questo clima quasi da caserma, tra doveri, goliardia e voglia di farcela. Ridevano, si divertivano e facevano quello che gli pare: poi, in campo, tutti uniti a lottare per un unico obiettivo: La vittoria. A qualunque costo. Con qualunque mezzo. A me, quella squadra, ha ricordato, per alcuni versi, la Lazio del primo scudetto, nel maggio 1974 (altra ricorrenza di questi giorni): una banda di calcio e pistole. Caratteri forti o finti calmi. Benzina pura pronta a bruciare. Sapientemente guidati e domati da una persona tanto buona, quanto ferma nei modi: Tommaso Maestrelli. Un mix esplosivo che, in campo, girava che era una meraviglia. Gente tenace, con personalità diverse, che si divertiva a giocare a pallone, che cercava nel calcio la propria realizzazione, che canalizzava in 90 minuti emozioni ed energie: anche loro, infatti, scrissero un pezzo di storia.

Fatto sta che i Dons londinesi menavano come fabbri: tiravano il pallone in rete con tutta la forza possibile e si liberavano degli avversari con altrettanto livore. Se potevano: si divertivano; altrimenti: si incazzavano. A volte andava bene, altre andava male. In quella stagione 1987/’88 raggiunsero l’Olimpo: gli ultimi della classe, scorretti e scanzonati, agguantarono il 6° posto in campionato e la finale di coppa nazionale e si trovarono faccia a faccia con le prime della classe. A Wembley, quel giorno di metà maggio di 30 anni fa, giocarono la partita della vita. E sapete come andò a finire? Com’è giusto che fosse. Il Liverpool appariva per nulla intimorito e forse troppo sicuro: eppure aveva davanti una squadra che aveva disputato un ottimo campionato e una buona coppa. Schierano ovviamente le formazioni migliori. L’inizio è buono per entrambe. Il fronte di gioco cambia in continuazione. L’impressione è che i giallo-blu, a tratti, corrano un po’ meno, ma si fanno comunque trovare lì davanti. Ad un certo punto Wise tira una bomba che, però, si alza sopra la traversa. Poco dopo, dalla parte opposta, è Beardsley a tirare: centra la porta, ma il gol gli viene annullato. Il tifo cresce, soprattutto quello di “casa”.

Al 37° Wise calcia una punizione all’altezza dell’angolo di sinistra: mischia in area, Sanchez la colpisce di testa e la insacca di rapina. “What a typical Wimbledon goal!” sottolinea il commentatore della BBC. Al 61° Goodyear atterra Aldridge in area ed è rigore: tira secco, a destra, ma Beasant intuisce, si getta subito e para! I Reds sprecano un’occasione d’oro e Dave diventa così il primo portiere a parare un penalty in una finale a Wembley. Gli ultimi minuti sono una rincorsa al pareggio, ben difeso dalla macchina da guerra di Gould. Così fino al fischio finale: quando sull’ultimo lancio l’arbitro decreta il 90°. È fatta: il Wimbledon è riuscito nella sua impresa. Esplode la gioia. Allenatore, staff e giocatori impazziscono, saltano, si abbracciano. “The Crazy Gang have beaten the culture club!” esclama di nuovo il cronista: una frase che passa agli annali. I poveri che battono i ricchi. I cattivi che battono i (presunti) buoni. Gli ignoranti che battono i signori. Pazzi scatenati, senza nulla da perdere. Lucidi folli. Gli ultimi che schiantano i primi. A volte il destino decide di risarcirti. Perché a volte, semplicemente, vince chi, pur consapevole di non essere il numero uno, ha continuato a divertirsi, combattere e non ha mai mollato.

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Ilaria Ciangola
Di Trento. O.S.S. in Pronto Soccorso. Tifosa e appassionata di calcio (italiano e internazionale), viaggi, Oasis e tutto ciò che è oltremanica.

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