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Dario Marcolin: “Vi racconto la mia avventura al Blackburn Rovers”

5 ' di letturaBuon centrocampista di manovra degli anni ’90 e dei primi 2000, viene ricordato soprattutto con le maglie – fra le altre – di Lazio, Sampdoria e Napoli. Dopo il ritiro dal calcio giocato è collaboratore tecnico di Mancini all’Inter, e vice di Mihajlovic al Catania e alla Fiorentina. Dopo alcune esperienze come allenatore in Serie B, decide di prendere il microfono e passare davanti alla telecamera: è opinionista alcune volte per la rete televisiva La7, dal 2014 è commentatore sportivo per Sky sport, mentre dal 2018 è commentatore tecnico e opinionista per DAZN. Da quest’anno conduce su Teleroma “Alta classifica”, e partecipa come opinionista fisso a “Ne parliamo il lunedì”, programma su Canale 8 dedicato al Napoli. Abbiamo il piacere di avere in esclusiva a Storie di Premier Dario Marcolin, che ci racconterà la sua esperienza in Inghilterra con il Blackburn Rovers.

Prima di parlare della Premier League, impossibile non partire da quella Serie A, che era di un livello incredibile. All’epoca (fine anni’90) era molto ampio il divario fra il campionato italiano e quello inglese?

Sì, la Serie A era il miglior campionato d’Europa. Possiamo dire che in quel momento il campionato italiano dettasse legge sugli altri campionati.

A partire da metà anni ’90 un gran numero di calciatori italiani ha tentato l’avventura in Premier League. Come mai l’Inghilterra era una scelta così gettonata? O forse erano le squadre inglesi a cercare spesso e volentieri i giocatori in Italia?

Io credo che fossero gli Inglesi che ci cercavano. In quel periodo tanti giocatori italiani sono andati in Inghilterra, perché il campionato italiano era il più rinomato in Europa. Per diventare la più forte di tutti, la Premier League iniziò a essere il campionato che voleva spendere più soldi, e quindi comprava gli italiani, come Ravanelli della Juve, o altri giocatori dell’Inter o della Lazio, per esempio.

Raccontaci come è avvenuto il tuo trasferimento al Blackburn. Come è nata la trattativa?

La chiave della trattativa fu il rapporto che c’era fra Roy Hodgson e Sven Goran Eriksson, che si conoscevano molto bene. Hodgson – che era stato in Italia qualche anno prima – diceva di aver bisogno assoluto di un centrocampista, e disse a Eriksson qualcosa come “ho visto che da te Marcolin gioca e non gioca, perché non lo fai venire da me?”. Il discorso è stato fra gli allenatori, non fra me e la società. Da me è venuto Eriksson a chiedermi “Dario, ma tu ci andresti a giocare in Inghilterra, al Blackburn?” Il Blackburn aveva vinto poco prima il campionato (nel 1995, ndr), era una società che poteva essere pari alla Lazio, all’Inter o al Parma.

Le principali differenze fra la Serie A e la Premier League? C’è stato un momento nel quale hai pensato “questa cosa in Italia è completamente diversa”?

Sono stato catapultato in un mondo completamente diverso. Arrivavo da una piazza come Roma, una città che offriva tutto come stile di vita. Mi sono ritrovato là, dove alle tre era già buio, alle cinque chiudevano i negozi, alle sette si andava a mangiare, pioveva sempre, si viveva l’ottanta per cento della giornata in casa. Mi sono ritrovato in uno stile di vita completamente diverso, come passare dal mare alla montagna. Però c’era una bellezza fondamentale, che era l’organizzazione. Il centro di allenamento – che loro chiamano training ground – era già avanti rispetto all’Italia: avevano 7/8 campi, non entrava nessuno, io arrivavo a una reception come quella di in un albergo, dove c’erano due donne che mi programmavano l’intera giornata, fino all’orario del mio ritorno a casa. Era un altro calcio per me, un’altra programmazione.

Da noi in Italia forse era ancora tutto più casereccio, più artigianale.

Bravo, alla Lazio, per dire, sono stato io a fare il contratto della corrente a Nedved, a casa sua. Lui non capiva la lingua italiana, e allora sono andato io a parlare col padrone di casa. In inghilterra invece tutto funzionava, ogni giocatore aveva una casella dove riceveva la posta e le richieste dei tifosi (ancora non si usavano le mail). E poi una cosa: non esistevano tanti giornali come in Italia. C’era solo il “Daily Mail”, piuttosto che un altro giornale, che sono come in Italia “Il corriere della sera” o “La repubblica”. Un giornale nazionale che parlava anche delle squadre, ma mai del Blackburn, perché parlava del Liverpool, del Manchester United, del Chelsea, dell’Arsenal, del Tottenham. Quindi un appuntamento con la stampa il venerdì e basta, non esisteva nient’altro. Zero pressioni, non si andava neanche in ritiro, ma c’era il ritrovo a mezzogiorno quando giocavamo alle tre. Potevo camminare per strada e nessuno mi riconosceva. Sembrava quasi di giocare in un club dilettantistico.

Poi arriva il 14/11/98, siamo a Manchester, stadio Old Trafford.

Quella è stata la seconda partita che giocavo, ero arrivato il 28 o 29 ottobre. Ero partito dalla panchina, ma Roy Hodgson subito mi ha messo dentro. Stavamo perdendo 3-0, ma poi io ho fatto il 3-1, Blake il 3-2, e abbiamo sfiorato il tre pari, c’era stato un grande assedio. Quello era il Manchester ‘vero’, con Beckham, Giggs, Scholes, Yorke, Cole, c’erano tutti, Schmeichel in porta, i fratelli Neville. In mezzo al campo c’era Roy Keane, cattivissimo, lui faceva paura.

Come è stato misurarsi con un calcio diverso?

Oggi, nel 2020, quello della Premier è un campionato tecnico, nel ’98, venti anni prima, era un campionato fisico. Loro giocavano tutti, ma proprio tutti, con il 4-4-2, non c’era qualcuno che giocava diversamente. Il loro obiettivo, anche in allenamento, era far arrivare palla sull’esterno, e la loro frase era “in the box”, cioè cross e tutti dentro l’area a saltare. Oppure la “second ball”, ovvero palla lunga all’attaccante, e quella che vagava in area era la seconda palla. C’erano sempre i due “bestioni” in attacco: buttavi la palla avanti, e loro la dovevano tenere lì.

Per il Blackburn è stata una stagione sfortunata, con la retrocessione in Championship, nonostante giocatori come Sutton, Wilcox, Duff…

È andata male all’ultima giornata. A noi per salvarci bastava vincere col Newcastle, una squadra che non aveva più niente da dire, tranquillissima. Newcastle che aveva Alan Shearer, che se avesse potuto avrebbe aiutato il Blackburn. Invece non siamo riusciti a vincere, abbiamo trovato un avversario concentrato e attento, e con un pareggio, per un punto, siamo andati giù. In Inghilterra hanno una mentalità completamente diversa dalla nostra: in Italia avresti trovato avversari più morbidi, ma là non fanno sconti a nessuno.

In Italia ricordiamo molto bene Roy Hodgson sulla panchina dell’Inter. Come è stato il tuo rapporto con l’allenatore?

Ho avuto Roy Hodgson per un mese e mezzo, perché poi è stato esonerato, ed è arrivato Brian Kidd. Hodgson con me è stato grande: io sono arrivato ed ero ero senza macchina, lui veniva tutti i giorni a prendermi in albergo, mi accompagnava all’allenamento e mi riportava indietro, finché non ho trovato casa e mi hanno dato una macchina. In quelle due settimane lui mi scortava, con me è stato eccezionale.

Ci sono stati un avversario e un compagno che ti hanno particolarmente colpito?

L’avversario sicuramente è stato David Beckham: quando l’ho visto era il periodo del ‘mito’ di Beckham, poi lui giocava a destra e io sul centro-sinistra, ci ho duellato, lo guardavo come un mito, e devo dire che lui mi ha fatto un certo effetto. Un mio compagno di squadra che era abbastanza forte e mi impressionava era Chris Sutton: attaccante che faceva reparto da solo, che da solo faceva la ‘guerra’ in mezzo ai difensori centrali. Lo vedevi che anche sulla palla impossibile lui usciva con i denti dai duelli. Lui era proprio l’uomo dei duelli.

Un’ultima condiserazione sugli stadi e sul pubblico della Premier League.

In Inghilterra c’erano gli stadi che avevano gli spazi dove mangiare, le stanze per riposare, i negozi all’interno: erano già avanti rispetto all’Italia. Calcola che son passati 20 anni, e – tolte la Juve e l’Udinese – in Italia ancora non c’è quella tipologia di stadi. E poi anche se perdevi 4-0 i tifosi ti battevano le mani, perché partivano dal prsepposto che la squadra aveva dato il 120%. Ti dico la verità: è stata un’esperienza che mi ha insegnato molto sul piano dell’innovazione e del comportamento.

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