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venerdì 19 Aprile 2024
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Chicharito Hernández: le memorie immaginarie di un campione umile

3 ' di letturaMi chiamo Javier Hernández e faccio il calciatore. No, aspettate, di Hernández ce ne sono troppi e non vorrei confondervi. Io sono il Chicharito, professione futbolista. Il soprannome e il talento li ho ereditati da mio padre, che tutti chiamavano Chicharo.

Ebbene sì, non ho ancora appeso gli scarpini al chiodo. Sorpresi? Lo capisco. Sono certo che alla maggior parte di voi non capita neanche più di vedermi in televisione né di leggere il mio nome su qualche giornale. Ormai è passato quasi un anno da quando ho lasciato l’Europa e attraversato l’Atlantico per sbarcare a Los Angeles, sponda Galaxy. Ho pianto e non l’ho nascosto. Per tanti anni ho sognato ininterrottamente, ma ormai sto per svegliarmi. Lo so, non sono così vecchio, ho 32 anni e un fisico che ancora mi sostiene, ma il mio viaggio sta inesorabilmente finendo.
Purtroppo, il tempo non mi è stato amico e la mia ultima avventura è stata subito macchiata dal dramma che con tanta prepotenza ha colpito tutti noi. A proposito, l’ho già detto una volta e voglio ripeterlo: trovo scandaloso che io e i miei colleghi guadagniamo così tanto mentre chi sta sulla linea di fuoco a salvare vite rischiando la propria riceva una paga ridicola in confronto. Lasciamo perdere, non voglio dare un tono polemico alle mie prime memorie. L’unica cosa che mi preme è raccontarvi quanto sono stato fortunato ad avere avuto una carriera simile, fatta di soddisfazioni e qualche dispiacere.

Sono nato a Guadalajara, in Messico, dove ho sporcato i miei primi tacchetti. Le mie capacità crescevano rapidamente, cosa che non posso dire della mia altezza, che si è presto fermata al metro e 75. Poco male, la forza delle mie gambe mi ha permesso più volte di saltare in alto, anche più dei difensori.

Nonostante fossi un professionista già da 4 anni, è nel 2010 che mi avete visto la prima volta. Il Mondiale, Dios mío! Ero davvero fra i convocati. Un po’ me lo sentivo, visto che negli ultimi mesi avevo disputato diverse amichevoli andando a segno con una certa frequenza. Eppure, non so descrivervi il momento in cui ho letto il mio nome tra quelli di coloro che avrebbero preso parte alla spedizione. È stata un’emozione unica.
Sapevo di avere qualche riflettore puntato su di me, dopotutto in aprile ero stato acquistato dal Manchester United. Ero deciso a fare del mio meglio, per tutto il Messico e per dimostrare al mio futuro mister che presto avrebbe avuto con sé un centravanti di tutto rispetto. Insomma, non ero il nuovo Van Nistelrooy e non mi sognavo di soffiare il posto a Berbatov, sicuramente più esperto e completo di me; di sicuro, però, mi sarei fatto valere.

In Sudafrica ho segnato due gol in quattro partite, uno nella vittoria contro la Francia nel girone e l’altro all’Argentina, che ci ha sconfitto agli Ottavi. Mica male per un novizio. Mi sentivo pronto a indossare la pesantissima maglia dei Red Devils.

Me la ricordo bene quella prima stagione in Inghilterra. A Manchester c’era aria di rivalsa per il titolo perso di un punto pochi mesi prima, e la mia gara d’esordio è stata proprio contro i campioni del Chelsea, nel match valido per il Community Shield. Mi sono presentato con un gol, come ogni attaccante dovrebbe, ma l’ho fatto in un modo davvero strano: il mio corpo e la palla che lo stava raggiungendo non si erano messi d’accordo, e quello che avrebbe dovuto essere il più semplice dei tap-in si è trasformato in un complicato tentativo di metterla dentro, fortunatamente andato a buon fine, ma non prima che io mi colpissi in piena faccia.

Eravamo i più forti e lo abbiamo dimostrato vincendo quella partita e un campionato mai in discussione. Senza alcun tipo di presunzione, dico che la vittoria di quella Premier è passata anche dalle mie tredici reti, per tante delle quali è stata determinante la mia intesa con Rooney. Che onore giocare al suo fianco!

Dopo quattro anni all’Old Trafford, ho vestito la camiseta del Real Madrid, sono stato in Germania e intanto sono diventato il miglior marcatore di sempre della mia Nazionale. Non ho chiesto niente e ho avuto tutto, dalla stima di compagni e allenatori all’amore della mia famiglia e di Dio. Quando tutto questo finirà, saprò chi ringraziare.

 

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